RECENSIONE sulla poetica di Rodolfo Vettorello a cura
di Valeria Di Felice
La poetica di Rodolfo Vettorello è un canzoniere della memoria e del ricordo di un Uomo che volge lo sguardo, a volte nostalgico a volte visionario, al suo essere-al-mondo e che percepisce il sentore della morte, intesa come categoria dell’esistenza, come accadimento che dischiude agli occhi del poeta il senso più intimo delle cose, come confine che costringe con la sua morsa ineluttabile ad una trasformazione. Tuttavia, non è la morte che viene distillata tra i versi delle sue raccolte, ma la sua “idea”, il suo presagio.
L’idea della morte fa vacillare le fondamenta di tutte le certezze ma conduce anche alla riflessione sul profumo più autentico dell’esistenza dell’uomo, sottraendolo a uno sterile destino, vissuto sotto l’egida dell’impassibilità e dell’inibizione affettiva. E allora il pensiero della morte diventa preziosa ma sofferta specola per guardarsi indietro e per addentrarsi nel mistero pulsante e tenace del filo illusorio della vita, quello che lega l’uomo alla sua esistenza e che lo tiene in scacco di fronte alle infinite “ipotesi che siamo”. È l’ultima pagina del libro della vita quella più importante, quella che rivela al lettore la compiutezza del suo racconto, la pienezza della sua parola: ed è per questo motivo che essa va letta lentamente, centellinando ogni segno, scandendo ogni suono: «Straziante questa attesa che finisca/ la pagina di un libro che si chiude./ Io leggo sempre adagio; non so leggere/ che sillabando, come gli scolari/ e quando arrivo presso l’appendice/ rallento ancora per farla durare/ un altro poco/ la pagina finale.»
L’attesa della morte, la consapevolezza della caducità delle cose e dell’impotenza dell’uomo di fronte alla forbice del tempo non vogliono essere stoica rassegnazione, abbattimento, inevitabile resa, ma intuizione malinconica e profonda del divenire del proprio fondamento esistenziale: è la poesia che, attraverso la travagliata penna del poeta, si fa azione, spinta, trasformazione.
Il tempo è una enigmatica zavorra che incombe sul destino dell’uomo, ma allo stesso tempo è lo sprone che lo induce ad affrettarsi a ritrovare se stesso frugando nel passato. “Un uomo è solamente la sua storia e la memoria il suo carnet di viaggio”: il ricordo diventa l’antidoto all’azione corrosiva del tempo che rende vulnerabile il dominio sulla realtà, continuamente incalzata dal sempre più veloce avvicinarsi della morte; la sua vena lirica è la densificazione dell’immagine di un ricordo, che, con fare fluttuante, sembra rivivere il suo tempo nella mente del poeta: «Ricordi che si sommano a ricordi/ a edificare un muro contro il tempo,/ speranze che si erodono ogni giorno/ come una dolce pietra d’arenaria.»
Parola, quella di Vettorello, che induce e conserva la memoria del sé: il rapporto memoria-morte non è nuovo alla letteratura, ma in Vettorello si fa particolarmente intenso, poiché viene vissuto e riproposto in maniera assolutamente personale e viscerale: «Succede a volte/ che un’improvvisa ondata di memoria/ mi assalga quasi senza una ragione,/ il bacio di una donna,/ mia madre o la ragazza dei miei sogni/ e mi ritorna/ la voglia di rivivere un momento/ denso di gioia o pianto, non importa/ e un’altra volta finalmente/ ch’io possa dissanguarmi per amore/ e il mio morire arrivi e che mi trovi/ dolente e disperato ma vivente.»
Il Poeta è angosciato dall’idea di lasciare incustoditi i giardini fioriti della sua emotività, di privarsi del calore delle persone amate, è attanagliato dal pensiero di non poter più, un domani, essere consapevole e partecipe della bellezza della vita. Tuttavia la sua inquietudine trova conforto e riscatto nella dolcezza degli affetti e dei ricordi, nel potere dell’Amore (compresi i suoi affanni e le sue “piaghe”), e soprattutto nel sogno. Topos letterario di notevole rilievo nella poetica di Vettorello è il sogno, la visione, la forza dell’immaginazione che fungono non da pusillanime fuga, ma da luoghi della mente e del sentire in cui affondare i camminamenti del proprio Io e creare. È la creazione del linguaggio poetico, scabra di derive retoriche e libero dal peso della tradizione, che diviene strumento attraverso il quale ritrovare la propria strada, quella che porta all’autocoscienza. «Si può, lo so, si può provare a fare/ di questo spazio minimo nel mondo/ il nostro paradiso,/ come la stanza piccola in cui vivo,/ dove raccolgo/ cimeli vari, sfilacciati brani/ di quel tappeto magico che impiego/ per visitare i luoghi del mio sogno,/ paradisi di ciottoli raccolti/ in ogni luogo,/ la traccia sottilissima che inseguo/ sul mio sentiero.»
Vettorello sente la poesia come contenuto sostanziale, idee, concetti, situazioni poetiche, piuttosto che come puro linguaggio formale. Adotta forme metriche libere, che tendono a decantare il peso delle tensioni sentimentali e presentano un verso nitido, lucido e musicale.
Di singolare efficacia figurativa è l’immagine dell’Uomo-Poeta che galleggia sulla superficie delle acque nel tentativo di accogliere in sé le profondità del mare e soprattutto l’immensità del cielo: il poeta, dunque, come centro radiale di una totalità che gli permette di evadere dalla prigione sulfurea, quasi pietrificata, della nullificazione della non-esistenza: «Io galleggio/ e mi basta/ questo mondo racchiuso in bottiglia/ e mi abbaglia/ il mio spicchio di cielo/ come fosse filtrato attraverso/ una coltre sottile di ciglia.»
Ampiezza di questioni vitali racchiusa nell’orizzonte di uno sguardo poetico che non si limita alla manifestazione dei propri lasciti emozionali, ma va oltre, alla ricerca della ragione più sottile e autentica della sua storia, quella della sua Vita, dei suoi affetti, dei suoi “ciottoli”, quella che sfugge agli entusiasmi e ai desideri della gioventù più imberbe, per rivelarsi nella stagione più matura.
È dall’evidenza della luce del sole e della storia che è trascorsa, che il poeta trae la sua verità, o meglio la sua illuminazione: «La verità/ la svelerà soltanto il sole/ se sorgerà,/ per cacciare i fantasmi e le falene/ e il chiaror bianco come un’illusione./ Se dovessi morire/ e che sia già domani,/ vorrei che fosse, come voglio,/ al sole.»
Se “la vera genialità consiste, non tanto nel rivoluzionare gli ambiti in cui si opera, ma semplicemente nell’aggiungere… quel verso in più” come si legge nell’introduzione a Arcobaleni, auguro al mio caro amico Rodolfo, che ha nei modi e nei gesti la pacatezza e la sensibilità della sua poesia matura, di continuare a regalarci i suoi versi d’autore… perché hanno la forza di spostare in avanti quell’affascinante e inestimabile “tracciato poetico giunto fino a noi”…
Valeria Di Felice
di Valeria Di Felice
La poetica di Rodolfo Vettorello è un canzoniere della memoria e del ricordo di un Uomo che volge lo sguardo, a volte nostalgico a volte visionario, al suo essere-al-mondo e che percepisce il sentore della morte, intesa come categoria dell’esistenza, come accadimento che dischiude agli occhi del poeta il senso più intimo delle cose, come confine che costringe con la sua morsa ineluttabile ad una trasformazione. Tuttavia, non è la morte che viene distillata tra i versi delle sue raccolte, ma la sua “idea”, il suo presagio.
L’idea della morte fa vacillare le fondamenta di tutte le certezze ma conduce anche alla riflessione sul profumo più autentico dell’esistenza dell’uomo, sottraendolo a uno sterile destino, vissuto sotto l’egida dell’impassibilità e dell’inibizione affettiva. E allora il pensiero della morte diventa preziosa ma sofferta specola per guardarsi indietro e per addentrarsi nel mistero pulsante e tenace del filo illusorio della vita, quello che lega l’uomo alla sua esistenza e che lo tiene in scacco di fronte alle infinite “ipotesi che siamo”. È l’ultima pagina del libro della vita quella più importante, quella che rivela al lettore la compiutezza del suo racconto, la pienezza della sua parola: ed è per questo motivo che essa va letta lentamente, centellinando ogni segno, scandendo ogni suono: «Straziante questa attesa che finisca/ la pagina di un libro che si chiude./ Io leggo sempre adagio; non so leggere/ che sillabando, come gli scolari/ e quando arrivo presso l’appendice/ rallento ancora per farla durare/ un altro poco/ la pagina finale.»
L’attesa della morte, la consapevolezza della caducità delle cose e dell’impotenza dell’uomo di fronte alla forbice del tempo non vogliono essere stoica rassegnazione, abbattimento, inevitabile resa, ma intuizione malinconica e profonda del divenire del proprio fondamento esistenziale: è la poesia che, attraverso la travagliata penna del poeta, si fa azione, spinta, trasformazione.
Il tempo è una enigmatica zavorra che incombe sul destino dell’uomo, ma allo stesso tempo è lo sprone che lo induce ad affrettarsi a ritrovare se stesso frugando nel passato. “Un uomo è solamente la sua storia e la memoria il suo carnet di viaggio”: il ricordo diventa l’antidoto all’azione corrosiva del tempo che rende vulnerabile il dominio sulla realtà, continuamente incalzata dal sempre più veloce avvicinarsi della morte; la sua vena lirica è la densificazione dell’immagine di un ricordo, che, con fare fluttuante, sembra rivivere il suo tempo nella mente del poeta: «Ricordi che si sommano a ricordi/ a edificare un muro contro il tempo,/ speranze che si erodono ogni giorno/ come una dolce pietra d’arenaria.»
Parola, quella di Vettorello, che induce e conserva la memoria del sé: il rapporto memoria-morte non è nuovo alla letteratura, ma in Vettorello si fa particolarmente intenso, poiché viene vissuto e riproposto in maniera assolutamente personale e viscerale: «Succede a volte/ che un’improvvisa ondata di memoria/ mi assalga quasi senza una ragione,/ il bacio di una donna,/ mia madre o la ragazza dei miei sogni/ e mi ritorna/ la voglia di rivivere un momento/ denso di gioia o pianto, non importa/ e un’altra volta finalmente/ ch’io possa dissanguarmi per amore/ e il mio morire arrivi e che mi trovi/ dolente e disperato ma vivente.»
Il Poeta è angosciato dall’idea di lasciare incustoditi i giardini fioriti della sua emotività, di privarsi del calore delle persone amate, è attanagliato dal pensiero di non poter più, un domani, essere consapevole e partecipe della bellezza della vita. Tuttavia la sua inquietudine trova conforto e riscatto nella dolcezza degli affetti e dei ricordi, nel potere dell’Amore (compresi i suoi affanni e le sue “piaghe”), e soprattutto nel sogno. Topos letterario di notevole rilievo nella poetica di Vettorello è il sogno, la visione, la forza dell’immaginazione che fungono non da pusillanime fuga, ma da luoghi della mente e del sentire in cui affondare i camminamenti del proprio Io e creare. È la creazione del linguaggio poetico, scabra di derive retoriche e libero dal peso della tradizione, che diviene strumento attraverso il quale ritrovare la propria strada, quella che porta all’autocoscienza. «Si può, lo so, si può provare a fare/ di questo spazio minimo nel mondo/ il nostro paradiso,/ come la stanza piccola in cui vivo,/ dove raccolgo/ cimeli vari, sfilacciati brani/ di quel tappeto magico che impiego/ per visitare i luoghi del mio sogno,/ paradisi di ciottoli raccolti/ in ogni luogo,/ la traccia sottilissima che inseguo/ sul mio sentiero.»
Vettorello sente la poesia come contenuto sostanziale, idee, concetti, situazioni poetiche, piuttosto che come puro linguaggio formale. Adotta forme metriche libere, che tendono a decantare il peso delle tensioni sentimentali e presentano un verso nitido, lucido e musicale.
Di singolare efficacia figurativa è l’immagine dell’Uomo-Poeta che galleggia sulla superficie delle acque nel tentativo di accogliere in sé le profondità del mare e soprattutto l’immensità del cielo: il poeta, dunque, come centro radiale di una totalità che gli permette di evadere dalla prigione sulfurea, quasi pietrificata, della nullificazione della non-esistenza: «Io galleggio/ e mi basta/ questo mondo racchiuso in bottiglia/ e mi abbaglia/ il mio spicchio di cielo/ come fosse filtrato attraverso/ una coltre sottile di ciglia.»
Ampiezza di questioni vitali racchiusa nell’orizzonte di uno sguardo poetico che non si limita alla manifestazione dei propri lasciti emozionali, ma va oltre, alla ricerca della ragione più sottile e autentica della sua storia, quella della sua Vita, dei suoi affetti, dei suoi “ciottoli”, quella che sfugge agli entusiasmi e ai desideri della gioventù più imberbe, per rivelarsi nella stagione più matura.
È dall’evidenza della luce del sole e della storia che è trascorsa, che il poeta trae la sua verità, o meglio la sua illuminazione: «La verità/ la svelerà soltanto il sole/ se sorgerà,/ per cacciare i fantasmi e le falene/ e il chiaror bianco come un’illusione./ Se dovessi morire/ e che sia già domani,/ vorrei che fosse, come voglio,/ al sole.»
Se “la vera genialità consiste, non tanto nel rivoluzionare gli ambiti in cui si opera, ma semplicemente nell’aggiungere… quel verso in più” come si legge nell’introduzione a Arcobaleni, auguro al mio caro amico Rodolfo, che ha nei modi e nei gesti la pacatezza e la sensibilità della sua poesia matura, di continuare a regalarci i suoi versi d’autore… perché hanno la forza di spostare in avanti quell’affascinante e inestimabile “tracciato poetico giunto fino a noi”…
Valeria Di Felice